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Ad occhi chiusi (Lucia Colarieti)


Andrea ricordava con precisione il momento in cui gli annunciarono che era nato suo figlio: si trovava in campo, nel mezzo della lezione di tennis pomeridiana. La chiamata arrivò da fondo campo e il gruppetto di bimbi, con le racchette più grandi di loro, lo vide scavalcare al volo la rete e correre verso l’uscita. Era nato Elia e lui era il papà più felice del mondo.

Lo aveva cresciuto con gioia ed immenso amore, ma il suo sogno di aiutarlo ad impugnare la racchetta e a centrare le prime palle, si era infranto sulla triste evidenza della malattia del bambino. Il nervo ottico era danneggiato e sarebbe stato ipovedente grave, tutto divenne utopia, Elia non avrebbe mai visto la pallina.

Si erano trasferiti a Bologna per seguire meglio le terapie e lui aveva trovato lavoro nel club tennis in città, in quei mesi aveva imparato ad apprezzare ogni cosa che la vita potesse offrirgli, la sua famiglia si era allargata accogliendo una sorellina per Elia, ed erano felici. Rimaneva solo l’affilata malinconia che lo costringeva a chiudere il cuore in cassaforte quando i ragazzini suoi allievi, dopo un colpo ben assestato, sorridevano vittoriosi.

Fino a quel pomeriggio in cui il presidente lo chiamò: «Senti Andrea, mi hanno parlato di una nuova disciplina, mi piacerebbe che tu ti formassi, si chiama Blind tennis».

Andrea non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui vennero i giapponesi a mostrare loro di cosa si trattava. Il suo mondo si rivoluzionò, per lui il tennis era un campo rettangolare con una rete, palline che rimbalzano da mandare nel campo avversario, non riusciva ad immaginare di poterlo fare senza vederci con gli occhi.

«È impossibile!» disse, ma poi si lasciò trascinare dall’entusiasmo di quelle persone, percepiva che le barriere si potevano superare e lasciò che lo trascinassero. La pallina aveva un sonaglio che ne tracciava il percorso, le strisce del campo erano marcate da un nastro e le racchette erano più corte. Dopo qualche colpo a vuoto, con la benda sugli occhi, Andrea si rese conto che era possibile sentire la direzione e la velocità della palla. Attraverso i quattro sensi si riusciva ad avere la percezione totale dello spazio intorno.

I primi gruppi si erano costituiti, suddivisi secondo il grado di visione dei giocatori, con tante iscrizioni il club si era arricchito di persone che, con il bastone bianco e la racchetta nella sacca, andavano ad allenarsi. Andrea si era formato, aveva seguito dei corsi, e anche in quella specialità era prediletto dai ragazzini, Elia era il più bravo.

«Corri» gli gridava Andrea per spronarlo «picchia forte» e lui si concentrava per cogliere il suono della pallina e colpirla con precisione. Posizionato a fondo campo, ascoltava il doppio tocco della pallina sul campo e poi correva deciso per raccoglierla percependo la velocità smorzata. «Non hai visto che era corta?» urlava Andrea nella foga, e allora Elia si fermava, alzava le braccia in un gesto di finta disperazione e scoppiava in una risata.

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