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La narrazione del ricordo non archiviabile.


La narrazione del ricordo non archiviabile.

L’uso del presente nella scrittura autobiografica: scelta stilistica o condizione esistenziale?

Rosalia Catapano


Nella narrativa contemporanea è sempre più in uso il presente come tempo della narrazione, che offre notevoli vantaggi tra cui l’effetto “suspence” che tanto giova alla narrativa di genere giallo/noir. Ma, a partire dal mio interesse per la scrittura autobiografica, ho analizzato l’uso del presente in alcune autobiografie in chiave non propriamente stilistica, bensì rintracciando in tale scelta un’istanza interiore. Il presente come specchio di una condizione esistenziale, come metro del rapporto tra l’autore e il suo passato, tra l’autore e i ricordi di cui si appresta a scrivere.

La distanza emotiva tra chi scrive e il suo ricordo appare in alcune opere definita e dichiarata dal tempo adottato, tanto che l’uso del presente si manifesta non tanto e non solo come scelta stilistica, ma come testimonianza dell’attualità del ricordo, della sua immanenza nella vita e nell’animo dell’autore. L’indicativo presente traduce e sancisce l’impossibilità di abbandonare il ricordo, di “archiviarlo” e assume il colore della sofferenza interiore, della denuncia di fatti e circostanze che, per quanto lontani nel tempo, rappresentano il “qui e ora” più autentico dello stato esistenziale di chi scrive.

In Via Gemito Domenico Starnone adotta per lo più il passato remoto e l’imperfetto nel narrare la sua infanzia e la sua adolescenza. Ma, a tratti, i ricordi si fanno più vividi, accompagnati da colori, odori, da paure e meraviglie; lo scrittore non è più alla sua scrivania, è di nuovo il bambino che osserva i suoi genitori, le paure materne, le ossessioni paterne: ecco che la narrazione scivola nel presente.

«Bruscamente Rusinè smise di essere una ragazzina e perse la forma della spensieratezza… Fece gli occhi in allarme, pareva che la vita le stesse franando sotto i piedi. Cominciò secondo me a domandarsi cosa quest’uomo pretendesse da lei… Lo guardava ormai come fosse il Vesuvio, bello e grandioso, ma che poteva procurarle cenere, lava e terremoti senza nessun serio motivo… Adesso, per esempio, l’osserva scettica, mentre lui rimescola un liquido denso dentro una vecchia scatola di metallo. È un miscuglio di sua invenzione, attaccaticcio, grigiastro, che spennella ben bene sulle tele per prepararle al colore. Puzza quella roba di pollaio, di selvatico, di terra marcia e quando la fabbrica amalgamandola sul fuoco il malodore si attacca alle pareti e resta in casa giorni e giorni.»

In Open Andre Agassi adotta il presente quale unico tempo della narrazione.

Un uomo con una memoria straordinaria, a sua stessa ammissione, capace di ricordare ogni punto di una partita durata ore. Una memoria emotiva, però, che lo condanna (forse per sempre) a essere costantemente in contatto col bambino obbligato da un padre brutale ad allenarsi in un campo da tennis/prigione nel deserto del Nevada.

Andre sembra ancora lì mentre scrive:

«Ho sette anni e sto parlando da solo perché ho paura e perché sono l’unico che mi sta a sentire. Sussurro sottovoce: lascia perdere, Andre, arrenditi. Posa la racchetta ed esci immediatamente da questo campo. Entra in casa e prenditi qualcosa di buono da mangiare. Gioca con Rita, Philly o Tami. Siediti vicino alla mamma che lavora a maglia o compone uno dei suo puzzle. Non ti sembra bello? Non sarebbe magnifico, Andre? Semplicemente lasciar perdere? Non giocare a tennis mai più?… Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare… perché non ho scelta.»

Ritorniamo alla narrativa italiana, col romanzo che più di ogni altro può fornire a mio avviso spunti di riflessione sull’uso del tempo quale espressione di distanza emotiva.

In Se questo è un uomo Primo Levi inizia la narrazione al passato. Nel primo capitolo, Il viaggio, il tempo adottato è il passato remoto.

«Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda, ultima passione».

Nel capitolo successivo, Sul fondo, la narrazione comincia al passato remoto:

«Il viaggio (dal treno su un autocarro) non durò che una ventina di minuti».

Ma, appena il narratore varca la soglia del campo e incontra la famosa porta, la narrazione ha una brusca sterzata dal passato remoto al passato prossimo:

«Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata».

Immediatamente dopo, però, il passato si trasforma in presente. La grammatica parla dell’immanenza del ricordo, racconta il dolore che si ripropone ogni giorno, l’impossibilità di dimenticare. Gli anni non sono serviti a mettere distanza tra Primo internato e Primo scrittore.

«Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua nei radiatori ci rende feroci… questo è l’inferno».

Ecco, sono di nuovo qui, in questo inferno. Sono sempre stato qui.

La narrazione continua, per tutto il romanzo, al presente, compreso il penultimo capitolo, che però ha il titolo di L’ultimo.

Queste le battute finali del capitolo:

«Abbiamo soddisfatto la rabbia quotidiana della fame, e ora ci opprime la vergogna».

Ma nel capitolo successivo, Storia dei dieci giorni, la narrazione torna al passato. I tedeschi sono in fuga e la tragedia in qualche modo ritorna ricordo, ritorna quello che dovrebbe essere: una esperienza passata.

«La notizia (della fuga dei tedeschi) non provocò in me alcuna emozione diretta. Da molti mesi non conoscevo più il dolore».

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