Beniamino Strani - Ho 23 anni e vivo a Reggio Calabria. Scrivo poesie da 7 anni, perché credo sia ancora oggi la formula più affascinante di comunicazione. Cerco infatti di esprimere le mie emozioni, i disagi della mia terra e del nostro tempo, potendo giocare sulla scelta lessicale e retorica, sulla costruzione di immagini inusuali per la prosa. La mia più grande ispirazione è Montale, ma cerco anche di influenzarmi dalla generazione dei nuovi cantautori.
Non so di che colore è un perdono
Si sporge fino ai litorali tirrenici il mio sangue bianco.
Le mie dita sono petali di cormorani accasciati sulle fiumare asciutte.
Non so di che colore è un perdono.
Troppe volte ti ho letto le previsioni, e ora tu hai scelto un altro sole.
Si sporge fino ai faraglioni di muschio il mio corpo bianco.
Le mie voglie sono bossa nova in un Brasile di pioggia, la goccia di limone sulle emorragie dei silenzi, la sinagoga vuota, la speranza di fieno nell’arido alito del Colorado.
Terra mia
Miserabile ugola storta, spigola muta nei mari distratti da irti maestrali.
Venere denutrita
sospiri di marmo scoliosi di luna scorre tra i capillari un ciglio moro.
Bile omertosa, aspre altitudini ti soleggia un Agosto timido.
Maestà tumulate, secche promesse, latitanze di campagna, terra mia castagne e cipolle cupole greche malaffari allo scoglio, selva oscurissima dei miei sorrisi, madre impotente di quiete assordante.
Come sei bella
Come sei bella quando sorgi al Sole, quando ti pettini tra le mie miopie.
Come sei bella quando massaggi le mie negazioni, quando concimi il tuo Sahara.
Come sei bella quando ti spogli
tra i cedri maturi, e fai arrossire i tramonti.
Come sono belle le tue crepe, dove suonano i The Smiths, da cui vedo il brodo primordiale, la preistoria, la mela morsicata, la gloria di Roma.
Manco io
Manco io, lo sento che manco. Manco alle favole
dai fini lieti, agli olezzi di
feste da cortile,
alle spose vergini di peccato,
ai coni carichi di leccornie.
Lo sento che manco io, manco al riflesso stanco dei miei specchi obliqui, ai denti spalancati
dei sorrisi ingenui, agli arti che si aprono
alle stagioni calde, alle pagine bianche
che non ho riempito.
Manco io,
lo so che manco io.
E mancherò fino a quando
Afrodite
non si accorgerà
che da solo
non mi basto.
Fatima
Fatima il tuo sorriso quando mi perdo tra i dirupi dei campi infecondi, che figliano soltanto il finocchio selvatico.
Liane le tue braccia quando cado
nell’India del mio fragile
costume.
Tempio quando
le mie ossa piegate
dalla siccità, pregano acqua.
Non era
Non era la spavalda
melodia, non era il volto
simmetrico
che ride del suo profilo. Era l’inchiostro accartocciato che supplica ascolti di pupille
distratte.
Non era il gesso
di muscoli tonici,
neanche il carnevale
di trombe dorate.
Era il tasto rotto,
il pianoforte innevato,
la modestia delle mani
dietro ai fianchi.
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