Nicola Barbato - Nato ad Aversa nel 1996, laureato in Lettere moderne, laureando in Filologia moderna. Della poesia mi piacciono le curve, gli enjambement e il disegno che ne deriva. La mia ossessione per la letteratura è da sempre innanzitutto materiale, l’odore della carta e lo sporco dell’inchiostro e simili amenità. Non apprezzo la verità ma il reale: scrivo perché i testi mi appaiono l’ultima sede di quel necessario problematismo. Abbiamo bisogno di versi che non si spieghino.
Giulia
Il punto è che vieni e destabilizzi,
anzi, il punto è che vieni, e basta.
Giulia,
è la rinuncia a tenerci assestati.
siamo una possibilità strozzata:
un aborto di gardenia
che sembra una primula.
L'equilibrio ti confonde,
viviamo da compromesso,
mordendoci quando il cosmo è sazio.
Siamo stelle
che appassiscono al contatto,
l’ostacolo è la nostra nebulosa.
Già sei approdata.
«Sei goffo a riva coi braccioli».
Sto rigirandomi i pollici,
non tocco terra per timore
di sporcarmi le zampe.
L’orizzonte è per chi sogna.
Giulia,
non riesco a leggere,
tra milioni di piroette,
la retorica della fiducia,
che balli,
immobilizzarti è necessario,
che stanchezza.
Orbitarti intorno,
smussarti le scapole al ritorno,
mi avvilisce,
Giulia, fermati, ti prego.
Non vedi che urlo?
Anzi, non ti interessa
che urlo.
Non è un problema tuo,
e no, non dico che aspetterò,
dove poi, a che scopo?
Un gabbiano ipotetico
Francesco, amico mio.
Siamo immersi nel putrido,
nella vita fetente.
E riposi gli occhi mentre
in tv danno un film western
e sogniamo insieme
di andar via cavalcando cavalli.
Ma resti immobile sulle rotelle
che corrono al posto tuo.
Questo trono fermo
ingabbia ciò che fosti
in questa casa costruita
quando le gambe e il sesso
funzionavano ancora.
Cadesti inerte senza un’altra possibilità.
La meritavi, tu, tua moglie e tua figlia
che continuano a coccolarti
quasi come fossi un bambino
che non sa ancora camminare.
Ma tu volavi, amico mio.
Francesco, vorrei esser degno
della tua amicizia.
E la morte verrà a prenderci
trovando te, che stringi la manina
di tua nipote che ride piangendo,
E me, che guardandovi impassibile,
andrò via con lei, con queste gambe
che non merito, restando per sempre
un gabbiano ipotetico.
La bandiera della fame
All’oligarchia degli artisti
preferisco la dittatura del mio Stato
d’animo.
Facile voler andare a morte
se non si ha mai visto il fronte,
un pagliaccio, senza naso rosso,
non diventa un funambolo
se non precipita.
Siete cercatori? E di cosa?
Della parola? Sì,
con i piedi a bagno nei torrenti,
senza il setaccio.
Raccoglierete solo pietruzze
che dipingerete di giallo.
La scintilla non nasce nei circoletti
appagati, germoglia dalle pisciate
dei barboni fuori le porte.
I borbottii degli stomaci affamati
sarà l’inno della Rivoluzione.
Ubriachiamoci con il vigneto più usurato
che ha resistito a più di una grandinata:
il nevischio ci aiuta a vomitare,
con la rugiada ci laviamo le ascelle.
Che colpa ne ho se sono solo carne, sangue e ossa?
Se la poesia ricuce ferite e se la prosa sputa gli aghi?
Che colpa ho se la voce è megafono dell’anima
e se quell’anima è più silenziosa che mai?
Approdo
Perdersi è piantare bandiera: riconoscersi nell’innesto,
la terra è morbida finché non provi a buttarla giù
o in faccia allo specchio. La necessità di un contorno
è l’aspirazione più bassa, la bestia non nasce in gabbia.
Ho provato a contarmi i nei della schiena, ho smesso
per tracciarvi la croce, il supplizio, queste lacrime
saranno il collante: mi vorrai lo stesso ricongiunto?
Ho teso la mano affinché la spezzassi, coscientemente,
non ritornerà l’epoca del silenzio, i morsi sul collo
non troveranno che pelle secca, le corde vocali
suonarono liberazione. Ho urlato affinché mi sentissi,
che schifo l’autoflagellazione, il commiserarsi ha senso
solo se preghi. E mi inginocchiai a te, inutilmente,
i polpacci erano vacanti, su quelle panche facevamo incubi.
La chiesa è culla di speranza? Non per me, che non fui mai neonato:
quelle giostre mi facevano buttare latte. Riattaccarmi ad una tetta
sarà punto di accordo? Con l’ago della bilancia mi sono trafitto
l’aorta, e ora che non peso che qualche grammo di sterco
che non fugge, perché ci somigliamo.
Il punto e basta manifesta controllo,
fermami, mettimi lo sgambetto nella frase:
ripetimi che essere è per gli inutili,
che non possiamo rilassarci
perché abbiamo bandiere da piantare.
È al vento che appartengo, perché mi stravolge l’acconciatura:
disegnarsi l’anima è un atto di violenza.
La trilogia dell’abbandono
I
Un contatto fedele,
un cipresso, un cane che là sul terrazzo
non riporta la palla,
e in quella sospensione
un addio, un volgerti le spalle:
mi accuserai.
Al petto, che a stento ora ricorda
un non detto, pugnalo
e scavo fino a ricongiungermi.
Il silenzio o è morte o è pace
la risposta è nella lacrima,
avessi un po’ di trucco -come il tuo
che da spettro non sapevi colorarti-
a questo sale aggiungerei del chimico,
anzi lo aggiungo.
Eppure, da orfano
quale tu mi raccogliesti
-sì, fuori una birreria, ricordo –
mi offristi un cordone nuovo.
Conviene reciderlo
se adesso dovrò piangere davvero.
E se quelle braccia furono prima culla,
ora ne spezzo uno cosicché non possa
decidere a quale aggrapparmi:
non resterà che un carillon a farmi vomitare,
e vomitare, a vent'anni,
lo si fa a piccoli sorsi.
II
Vedi, incontrarsi al rovescio è già proiezione.
Chiedi un bacio: rinnego;
pur volendo saprebbe di fumo
e manco saporito, come quello essiccato
a contadini bugiardi.
Solo le lacrime ti supplicai
di regalarmi; che mi concedessi
di leccartele dalle guance,
ma l’acqua dalla fonte sa di rocce.
Unendoti i nei delle spalle
– come da bambini, i puntini, ricordi? –
ho scoperto come ti piegassi alle viscere
che non siano le mie è irrilevante.
Specchiarti al capoverso è invadente:
se regalassi un fiore ad una puttana
questo morirebbe; diventerà incenso
come quello di casa:
ricordi i figli? La madre? Ora è una banconota
a sapere di sperma, un reggicalze bucato…
al quadrivio, lì lasciai
che una foglia ti schiacciasse il capo,
scacciare le api non fa male
quando il miele lo secerni tra le gambe.
III
Non facesti calcoli: al suolo
gettasti ogni carezza, e ora
che ti intravedo nella foschia
non so se lo spettro stia approdando,
ma pur se fosse, ho lasciato
il niente che mi donasti in una bara,
affinché l’addio ci ricomponga.
Sai che gli sguardi sono di Prevert,
scrutarti a che scopo?
Per far sì che gli occhi giochino
a chi abbia più da sotterrare?
Conosci i fiori del vivaio,
non per dono, no, la saggezza
non hai dovuto improvvisarla
sui palchi della vergogna tu ci sguazzi.
Mi hai amato: un vinaio
e i suoi vigneti; non tragitto
ma prodotto. La compravendita
delle chiacchiere è il rimborso:
mai che ascoltassi.
Non ti ho conosciuta:
non basta un credo per tornare a Giano:
quella porta è sempre stata aperta e ora
deponi le armi, per scherno, e miri
per scherzo: credi che le ferite
sappiano di ciliegia? Amore, è l’asprezza
a costringermi alla confessione:
il dolciume è l’oppiaceo degli onesti.
Vuoi che il vigore lenisca cosa?
Un orizzonte? Un’opposizione?
Cara, non siamo che muscoli
e ti rivedo nei movimenti degli altri.
Le palpebre, saranno le palpebre a darmi scacco:
non resterà che contarmi le lacrime
e sperare che ci anneghi.
Con te le promesse sono a cottimo,
non sei che un’Itaca squallida
dove agli avori si preferisce
il marciume tra i denti dei contadini russi.
Congedo
Stupida (io ormai automa,
un appiglio? Non ne rinnego la probabilità,
non sarà altro che congettura)
la divinazione è l’unica strada,
risalire al vertice, lì alla luce del sommozzatore.
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