di Stefano Cortese
Il romanzo storico è una seduta spiritica, un rito vudù. È il racconto di un fatto mai accaduto davvero. Non così, almeno.
Suppongo che sia proprio di questo genere evidenziare la tracotanza insita nella letteratura, la ybris che sussiste a ogni racconto, sin dai tempi in cui i trogloditi tracciavano con la cenere le figure dei mammut e dei cacciatori sulle pareti delle spelonche. Il passato è un irrimediabile sconfitta dell’anima. Ogni cosa vi finisce, vi rimane relegata. Non esiste più nulla di quello che è stato e la memoria è una pallida illusione di recupero.
Ecco, allora, che il romanzo storico si fa istitutore di tale illusione: la accresce e la rinsalda, la glorifica, creando una realtà alternativa a quella, ormai, irrecuperabile.
Il romanzo storico sospende la morte, perché evoca spettri, come una seduta spiritica, appunto. Rampina al presente anime, luoghi, cose defunte e le fa rivivere. Niente rivive, però: è fantascienza, anzi, tracotanza.
Se gli Dei di un tempo operassero ancora, ci sarebbero molti confusi da Apollo tra i romanzieri d’oggi. Tutti a resuscitare i morti. Si può dire che il narratore sia un bokor, uno stregone.
Insomma: il romanzo storico tradisce la natura, inventando alternative che inducano a credere quella sia stata, un tempo, la realtà.
Ridurre il sacrilegio è impossibile: il narratore deve operare nell’eresia, scatenarla, anzi. Raccontare è quell’atto contro natura che ci consente di sperimentare la Natura stessa.
È in tale ossimoro che si cela il valore ultimo della narrativa e, in particolare, del romanzo storico.
La ricerca, lo studio dei brandelli e dei documenti, di quei barlumi che restano a galla, ci consente di avere un quadro definitivo dell’irrecuperabilità del nostro passato, come nella Chimera di Vassalli, in cui Zardino, il paese dove si ambienta la vicenda della povera strega Antonia, ha cessato di esistere, cancellato prima dagli uomini e poi dal vento; o nell’Azteco di Jennigs, che racconta la diaspora e il nulla del popolo Mēxihcatl.
Solo perpetrando l’illusione con coscienza si è salvi dall’illusione, insomma. Ci dobbiamo per forza voltare sulla porta di Dite e lasciare che Euridice svanisca.
Per quanto mi riguarda, cerco sempre di scovare non già l’accaduto, ma la persistenza. La facilità con cui gli uomini si ripetono, ci permette effettivamente di conoscerne le sfumature più intime anche solo spolverando i frammenti, provando a raccontare in che maniera si siano staccati dal resto dell’organo.
Il presente è rumore, diceva Vassalli nella storia di Antonia, il passato è nulla. Il futuro è inesistente.
Tra rumore, nulla e inesistenza si sviscera la nostra vita e il romanzo storico racconta questa verità.
Non narra, dunque, un fatto accaduto davvero, ma ciò che se ne può evocare, l’inalienabile realtà delle forze che ci guidano.
È un atto di consapevolezza, e, come tale, abbacinante. Nel mondo antico, gli indovini erano ciechi; Edipo, dopo aver conosciuto il vero, si acceca. Il primo poeta, Omero, aveva gli occhi bianchi.
Noi continueremo a risvegliare i morti, sapendo che non ci parlano davvero, ma che è la somiglianza delle nostre alle loro sorti a guidarci verso al coscienza.
Siamo cose insensate e perciò libere. Il romanzo storico, questo strano rito vudù, ce l’insegna e, al tempo, ce lo fa scordare.
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